L’Italia nella Seconda guerra mondiale
L’Italia fascista concorre, insieme alla Germania e al Giappone, a scardinare negli anni Trenta l’ordine internazionale di pace creato dopo la prima guerra mondiale. Nel 1935 aggredisce l’Etiopia subendo le sanzioni della Società delle nazioni da cui esce poco dopo; nel 1936 partecipa alla guerra civile spagnola a fianco di Francisco Franco; nello stesso anno – proclamato l’Impero – stringe un legame di alleanza con la Germania nazista (l’Asse) culminato nel Patto d’acciaio stipulato nel maggio 1939; un mese prima, in aprile, occupa l’Albania con il proposito di proiettare la propria potenza nei Balcani oltre che nel Mediterraneo. L’Italia fascista è pressoché costantemente in guerra fin dal 1935.

Proprio perché provata da questo lungo e spossante impegno bellico, al momento dello scoppio della Seconda guerra mondiale nel settembre 1939 il governo fascista proclama la “non belligeranza”: l’Italia di Mussolini resta cioè schierata dalla parte dell’alleato tedesco (per questo non si dichiara neutrale) ma non partecipa al conflitto (stante la sua palese impreparazione militare). Non appena, però, l’anno successivo, si profila il crollo della Francia, di fronte alla prospettiva di un rapido e definitivo successo della Germania nazista, il duce annuncia l’ingresso dell’Italia nel conflitto il 10 giugno 1940, immaginando prospettive di rapidi trionfi al fianco dei tedeschi. Dall’operazione disastrosa arrivano però solo dei trascurabili benefici confinari.
L’invasione della Grecia nell’ottobre 1940 segna una nuova fase: l’Italia di Mussolini intende condurre una “guerra parallela” rispetto a quella condotta dal più potente alleato per realizzare propri obiettivi espansionistici (il “nuovo ordine mediterraneo” vagheggiato dal duce). Mal preparata e peggio condotta, l’aggressione alla Grecia mette però in mostra tutti i limiti dell’Italia fascista e segna il definitivo tramonto della prospettiva della guerra parallela.

Solo grazie all’intervento della Wehrmacht nell’aprile 1941, Mussolini domina la Grecia e si impossessa di ampie parti della Jugoslavia (la Slovenia meridionale, la Dalmazia, il Montenegro, parte della Croazia). In tutti i territori occupati dei Balcani (territori jugoslavi, Albania, i due terzi della Grecia), le truppe italiane devono presto combattere una tenace guerriglia partigiana, contrastata col ricorso a misure draconiane che sfociano in gravi crimini di guerra (incendi, rastrellamenti, fucilazioni di ostaggi, deportazioni di popolazione civile). Alle difficoltà incontrate nei Balcani si aggiungono le sconfitte militari nell’Africa orientale Italiana (Somalia, Eritrea, Etiopia) per mano britannica, che portano al restringimento dello spazio imperiale fascista (il regio esercito abbandona l’Etiopia a maggio del 1941).
Gli insuccessi italiani continuano nel 1942. Contro l’Unione Sovietica, aggredita nel giugno 1941 dalle armate hitleriane, il fascismo invia forze ingenti (il Corpo di spedizione italiano in Russia, poi diventato Armata italiana in Russia – Armir), riducendo però in questo modo la disponibilità di forze per il vitale fronte nord-africano (Libia, Egitto, Tunisia), dove le forze dell’Asse sono definitivamente sconfitte nel maggio del 1943. La credibilità del fascismo è ai minimi storici e la spallata finale arriva dallo sbarco angloamericano in Sicilia (10-11 luglio), cui seguono la seduta del Gran consiglio del fascismo del 25 luglio e la congiura monarchica che estromettono Mussolini a beneficio di Badoglio, l’armistizio con gli alleati e lo sbarco angloamericano a Salerno. A quel punto, l’Italia antifascista rappresentata dal Comitato di liberazione nazionale, chiama gli italiani alla resistenza contro i tedeschi che occupano il Centro-Nord affiancati dai fascisti riorganizzatisi nella Repubblica sociale italiana, detta di Salò.
Ben presto il fronte italiano diviene però secondario (per la scelta alleata di dare la priorità allo sbarco in Normandia). Le truppe anglo-americane risalgono lentamente la penisola e le prospettive della liberazione del paese si proiettano avanti nel tempo, ponendo le forze antifasciste davanti a scelte politiche importanti: prima fra tutte la questione di risolvere il difficile rapporto fra i partiti del Cln e il governo Badoglio insediatosi nell’Italia meridionale (Regno del Sud).

La situazione si sblocca nel marzo 1944 con il riconoscimento del governo Badoglio da parte dell’Urss, che apre la strada alla “svolta di Salerno”: il leader del partito comunista, Palmiro Togliatti, mette da parte la pregiudiziale antimonarchica, avviando un processo che porta i partiti del Cln a entrare nel governo, uniti nello sforzo comune contro i tedeschi e i fascisti di Salò.
Dopo la liberazione di Roma (giugno 1944), nasce un governo di unità nazionale antifascista guidato da Ivanoe Bonomi. Intanto, lo scenario internazionale è mutato: l’Armata rossa avanza verso ovest ed è stato aperto un nuovo fronte con lo sbarco in Normandia (6 giugno 1944). In estate al Centro-Nord la Resistenza si sviluppa notevolmente sotto la guida del Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia (Clnai) che ottiene il sostegno alleato: le formazioni partigiane ostacolano efficacemente tedeschi e fascisti, e per qualche tempo riescono a controllare alcune zone libere. Per disarticolare i legami di solidarietà tra partigiani e civili, gli occupanti nazisti e i gli uomini di Salò attuano pratiche sistematiche di guerra ai civili.
Superate le difficoltà dell’autunno 1944, il governo Bonomi delega il Clnai a rappresentarlo nell’Italia occupata e le forze antifasciste preparano l’insurrezione generale in concomitanza con l’offensiva angloamericana lanciata all’inizio aprile 1945. La liberazione partigiana di alcune città del nord precede l’arrivo degli Alleati, dimostrando che esiste un’Italia che si è riscattata dal fascismo. Il 28 aprile, partigiani italiani arrestano e fucilano Mussolini. All’inizio di maggio 1945 anche tutta l’Italia settentrionale è finalmente libera, le forze tedesche firmano la resa e si conclude la seconda guerra mondiale.

L’8 settembre 1943
L’8 settembre 1943 è il giorno in cui le forze anglo-americane e il governo Badoglio annunciano l’armistizio dell’Italia con le potenze alleate. La data sancisce la resa dell’Italia ma non la fine della guerra. Si apre infatti una fase altamente drammatica per le sorti del paese, destinata a segnarne la storia.

Alle origini dell’armistizio vi è la lunga serie di sconfitte militari del fascismo, figlie di una guerra d’espansione che ha come corollario l’incapacità del regime di difendere il suolo nazionale dalle truppe angloamericane sbarcate in Sicilia il 10 luglio 1943. Il regio esercito si dissolve in poche settimane e lo sbarco rappresenta il colpo di grazia per un regime da tempo screditato.
La caduta di Mussolini non avviene però per le manifestazioni popolari, bensì come conseguenza della rottura dell’accordo di collaborazione che fin dalle origini ha legato il regime ai tradizionali centri di potere politico economico e militare del paese, a cominciare dalla monarchia sabauda, il più importante di essi. Di fronte all’imminente collasso bellico del regime, la corona si muove per scalzare il Duce dalla sua posizione di comando e mantenere il controllo del paese. L’occasione dell’intervento del re è offerta dalla riunione del Gran consiglio del fascismo che si conclude con l’approvazione dell’ordine del giorno Dino Grandi, che esorta il monarca a riappropriarsi delle funzioni di comandante supremo delle forze armate. Il 25 luglio Mussolini è quindi convocato da Vittorio Emanuele III, invitato a rassegnare le dimissioni e arrestato, mentre alla guida del governo viene nominato il maresciallo Pietro Badoglio.
In molti in Italia ritengono che l’annuncio della caduta di Mussolini significhi la fine della guerra. Ma non è così. La Germania nazista non ha alcuna intenzione di cedere terreno agli Alleati e agisce rapidamente. Nei giorni successivi al 25 luglio circa otto divisioni tedesche prendono posizione sul territorio italiano, occupando i valichi alpini e appenninici. La prima idea coltivata da Hitler di rovesciare immediatamente il governo Badoglio viene sostituita da un piano che prevede la neutralizzazione delle forze italiane al momento opportuno. Intanto, il nuovo governo italiano, da una parte assicura all’alleato tedesco la continuazione dell’impegno bellico (“la guerra continua”) e dall’altra inizia trattative diplomatiche segrete con gli angloamericani a Lisbona. Queste portano all’armistizio italiano, nella forma della resa senza condizioni, siglato il 3 settembre a Cassibile vicino a Siracusa e reso noto l’8 settembre in coincidenza con lo sbarco alleato a Salerno.
Tenuta all’oscuro dagli Alleati della data esatta dello sbarco e della proclamazione dell’armistizio per comprensibili ragioni di sicurezza, la classe dirigente monarchica – attanagliata dalla paura della reazione tedesca –rivela grande inadeguatezza in quei giorni cruciali. Piuttosto che provvedere alla difesa di Roma, come previsto dagli accordi con gli Alleati che sono pronti ad intervenire con proprie forze aerotrasportate, Badoglio e i vertici dello Stato e delle forze armate mostrano colpevole passività (arrivando persino a prendere in considerazione l’ipotesi di sconfessare l’armistizio da poco firmato). Alla fine, preoccupati per la propria incolumità, non trovano di meglio che lasciare Roma e imbarcarsi a Pescara mettendosi in salvo a Brindisi, in Puglia, liberata dagli anglo-americani. Ai tedeschi è concesso il controllo insperato della capitale, per giunta ottenuto con il minimo sforzo.
Le forze armate italiane sono lasciate senza ordini precisi e si dissolvono in pochi giorni, anche se non mancano episodi di resistenza antitedesca organizzata, come in Dalmazia, nel Montenegro e in Grecia, soprattutto a Cefalonia e Corfù, dove le truppe italiane della Divisione Acqui sono decimate per aver rifiutato di arrendersi.

    Negli altri scacchieri bellici la sopraffazione delle forze italiane all’8 settembre è così rilevante da essere considerata l’ultima grande vittoria della Wehrmacht: circa 800 mila soldati italiani cadono prigionieri, di questi 150 mila sono arruolati al servizio della Germania, 650 mila invece sono deportati, internati in campi di prigionia e impiegati come lavoratori coatti a beneficio dell’economia di guerra tedesca.Alla sconfitta della guerra fascista segue il dramma di un paese diviso con il meridione liberato ed occupato dalle forze angloamericane e le regioni centrosettentrionali nelle mani della Wehrmacht e dei fascisti della Rsi che si forma di lì a poco. Con una lotta senza compromessi contro questi ultimi, le forze antifasciste concorrono a costruire un’idea di nazione democratica diversa da quella coltivata dal fascismo. Sotto questo profilo, l’8 settembre è stato considerato come l’inizio del riscatto italiano e della Resistenza.

 

 

L’occupazione tedesca in Italia
Tra il settembre 1943 e la primavera del 1945 i tedeschi occupano gran parte dell’Italia. Le forze armate del Reich controllano una vasta area territoriale, abitata da 21 milioni di persone, attraverso una massiccia presenza militare che arriva a contare 440 mila effettivi. Agli elementi della Wehrmacht, vanno aggiunti circa 50 mila appartenenti alle forze di polizia e alle SS. Durante il periodo dell’occupazione in Italia si avvicendano complessivamente circa un milione di soldati tedeschi.

La storiografia ha da tempo individuato quattro fasi dell’occupazione: settembre-ottobre 1943 con la stabilizzazione del fronte sulla linea Gustav (a sud di Roma); ottobre 1943-aprile 1944, appendice del primo periodo d’assestamento del sistema occupante; la fase dell’estate 1944, dopo la liberazione alleata di Roma il 4 giugno, segnata dal ripiegamento tedesco verso la linea Gotica (tra La Spezia e Pesaro) e dall’espansione del movimento partigiano; la fase che inizia nell’autunno 1944, tornante di grandi rastrellamenti, che si conclude con la vittoriosa offensiva alleata della primavera del 1945.
Sul territorio occupato si installano più centri di potere tedeschi che rispecchiano la policrazia che governa il Terzo Reich. Il primo centro è rappresentato dalle autorità politiche e civili che fanno capo al Ministero degli esteri, con l’ambasciatore Rudolf Rahn in posizione di preminenza come plenipotenziario del Reich. Oltre al Ministero degli esteri, le altre istituzioni civili che si insediano in Italia sono il Ministero per gli armamenti e la produzione bellica (retto da Albert Speer); l’Organizzazione Todt (che ha il compito di sfruttare la manodopera in Italia); l’Organizzazione Sauckel (che ha il compito di rastrellare manodopera forzata da portare in Germania). Il secondo grande centro di potere è rappresentato dalle forze armate (la Wehrmacht), sotto il comando prima di Erwin Rommel (fino all’ottobre del 1943), poi del Feldmaresciallo Albert Kesselring (fino al marzo 1945) e infine del generale Heinrich von Vietinghoff. L’esercito tedesco è composto da due armate (la X e XIV armata), che combattono al fronte contro gli Alleati. Alle truppe combattenti si affianca la struttura dell’amministrazione militare al comando del generale Rudolf Toussaint (sostituito nell’estate del 1944 dal generale SS Karl Wolff), costituita dai comandi militari territoriali presenti nelle maggiori province dell’Italia centrale e settentrionale lontane dal fronte. La rete delle Militärkommandanturen, che ha il compito di mantenere l’ordine e soprattutto di gestire sul piano amministrativo ed economico il territorio occupato sfruttandone le risorse, si intreccia con gli uffici dei vari ministeri tedeschi in Italia che entrano a far parte dell’amministrazione militare mantenendo però un certo grado di autonomia.

Il terzo dei poli di potere è rappresentato dalle forze di polizia e dalle SS agli ordini del generale Karl Wolff che diventa l’uomo chiave della repressione antipartigiana. Dal suo comando a Verona Wolff coordina le operazioni di controguerriglia per le quali ha autorità, oltre che sulle SS, anche su reparti della Wehrmacht e della Repubblica sociale. Il comandante della Polizia di sicurezza e del Servizio di sicurezza (SiPo-SD), Wilhelm Harster, anche lui con il comando a Verona cui fa capo una serie di comandi distaccati, ha invece compiti di polizia, spionaggio e repressione degli oppositori specialmente nelle aree urbane, e i suoi uffici sono responsabili degli arresti e delle deportazioni.
La competenza dell’amministrazione tedesca si estende alle aree sotto la sovranità della Rsi, escludendo alcune regioni di cui è prevista l’annessione al Reich: il Trentino-Alto Adige con una parte del Veneto (Alpenvorland – Zona di operazione Prealpi, provincie di Bolzano, Trento e Belluno) e il Friuli-Venezia Giulia con le province allora italiane in territorio croato e sloveno (Adriatisches Küstenland – Zona di operazione Litorale adriatico, province di Trieste, Udine, Gorizia, Pola, Lubiana, Fiume). Queste due zone sono poste sotto il controllo diretto di un alto commissario tedesco. Un sistema d’occupazione con un’architettura così complessa produce spesso ordini e incarichi paralleli, dando luogo a numerosi conflitti di potere.

Le truppe tedesche in Italia sono quindi impegnate da una parte sul fronte della guerra contro gli anglo-americani, e dall’altra nella lotta contro i partigiani. Nel corso della campagna d’Italia la Wehrmacht e le SS si macchiano di innumerevoli violenze contro i civili (compresi gli ebrei catturati e deportati per lo più ad Auschwitz), a volte con la collaborazione di reparti italiani come le Divisioni SS italiane o reparti della Rsi.
Secondo L’Atlante delle stragi naziste e fasciste gli italiani inermi uccisi dalle forze tedesche e della Rsi sono più di 24 mila e a questi si devono aggiungere le vittime fra gli internati militari, i deportati (di tutte le categorie), i lavoratori forzati e i circa 35 mila caduti tra i partigiani. Le forze armate tedesche sono inoltre responsabili di innumerevoli saccheggi e distruzioni tra le quali spiccano l’incendio dell’Archivio storico di Napoli e la demolizione dei ponti sull’Arno a Firenze (escluso il Ponte Vecchio). Da parte loro fino alla resa, avvenuta il 2 maggio 1945, i tedeschi hanno avuto circa 110 mila caduti.
Nonostante gli innumerevoli crimini commessi dalle forze armate tedesche in Italia, nel dopoguerra diviene molto popolare in Germania il mito della “Wehrmacht pulita”, secondo il quale i soldati dell’esercito avrebbero combattuto in maniera corretta, mentre i crimini più gravi sarebbero stati commessi dalle SS. Tale mito, tramandato soprattutto grazie alle memorie di Albert Kesselring, è stato da tempo sfatato dalla ricerca storica, che ha sottolineato il ruolo della Wehrmacht e dello stesso Kesselring nella brutalizzazione della guerra in Italia anche contro i civili.

La Repubblica sociale italiana
La Repubblica sociale italiana (Rsi) è lo Stato fascista repubblicano guidato da Benito Mussolini istituito nel settembre 1943 nel territorio italiano occupato dalle forze armate tedesche. La costituzione di un governo italiano semi-autonomo nella Penisola viene decisa dalla classe dirigente nazista, su proposta del Ministero degli esteri del Reich, per disporre di uno strumento utile a controllare il paese occupato con il minimo dispendio di mezzi. Al governo fascista sono assegnati infatti i compiti della repressione di ogni forma di resistenza e di dissenso, l’amministrazione del territorio, ma viene anche imposto il pagamento delle spese di occupazione. Sono escluse dall’autorità della Rsi due zone, il Litorale Adriatico e le Prealpi amministrate da due alti commissari tedeschi.
La penuria di personaggi di alto profilo e il legame di stima e fiducia personale coltivato dal Führer spingono i tedeschi a puntare ancora su Mussolini, liberato dalla prigionia al Gran Sasso e messo alla guida di uno Stato privo di consenso interno e con uno scarso controllo del territorio, affidato a organi di governo periferici. Nonostante tutti i suoi limiti, però, la Rsi e Mussolini hanno un certo margine di autonomia, specialmente per quanto riguarda la politica economica e la gestione dell’ordine pubblico.
Ossessionato dalla necessità di “tornare al combattimento” e di dimostrare ai nazisti la propria “affidabilità”, Mussolini considera priorità assoluta la creazione di un esercito fascista che sia in grado di combattere sul fronte meridionale contro le truppe Alleate. Tuttavia, i limiti imposti dai tedeschi (che hanno poca fiducia in un esercito repubblicano) e i dissidi interni tra i fautori di un esercito “apolitico”, capitanati dal maresciallo Rodolfo Graziani, e i favorevoli ad un esercito “fascista” (tra i quali il segretario del Partito fascista repubblicano Alessandro Pavolini), rendono estremamente difficile la costituzione delle forze armate.
Nell’autunno del 1943 si giunge così ad un compromesso tra le due linee che produce una duplicazione dei centri decisionali: Graziani, in veste di ministro della Difesa nazionale, mette in piedi un apparato militare tradizionale e Renato Ricci (spalleggiato da Pavolini) organizza una formazione inedita, la Guardia nazionale repubblicana.

Sono però i tedeschi a stabilire le norme di ricostruzione e arruolamento nel nuovo esercito, da effettuarsi prima tra gli internati militari (cioè i soldati italiani fatti prigionieri dai tedeschi dopo l’armistizio) e in seconda istanza attraverso bandi di leva obbligatoria, che si rivelano però controproducenti, moltiplicando i casi dei renitenti che scelgono di darsi alla macchia finendo per alimentare le fila della Resistenza.
In una situazione di debolezza del governo repubblicano si costituiscono anche numerose formazioni paramilitari che riconoscono solo l’autorità di Mussolini o si mettono direttamente agli ordini dei tedeschi. Si tratta di squadre fasciste che si dedicano alle più brutali violenze contro oppositori politici ed ebrei. Tra queste si segnala la “banda” comandata da Mario Carità, che si costituisce a Firenze, in stretto contatto con i tedeschi, trasferendosi poi in Veneto, dove svolge un’efferata attività antipartigiana il cui perimetro d’azione sfugge agli stessi occupanti. Vicende simili a quelle della “banda” organizzata da Pietro Koch, che da Roma si sposta a Milano, alla ricerca di militanti antifascisti da catturare.
Incalzata dall’espansione partigiana dell’estate 1944, la Rsi accresce il proprio impegno nella lotta contro la Resistenza e a questo scopo il Partito fascista repubblicano si trasforma nel Corpo ausiliario delle camicie nere, organizzato in Brigate nere, nel quale devono entrare a far parte tutti gli iscritti al partito dai 16 ai 60 anni.
Nel contesto bellico italiano in cui le operazioni sono pianificate dalla Wehrmacht, Graziani riesce a mettere in campo soltanto quattro divisioni, che rientrano dall’addestramento in Germania nell’estate del 1944, di cui soltanto poche unità vengono impiegate al fronte contro gli Alleati. Le forze armate della Rsi (Gnr, Brigate nere ed esercito) sono impegnate principalmente nella repressione della Resistenza, rendendosi colpevoli di un numero altissimo di episodi di violenza e di stragi.
Passato l’inverno 1944-1945, in un paese ormai segnato dalla guerra civile, l’avanzata angloamericana, coadiuvata dalla Resistenza italiana, travolge i territori amministrati dalla Rsi. Davanti alla sconfitta, Mussolini non rinuncia a un ultimo, inutile, ordine di mobilitazione totale degli iscritti del Pfr, il 3 aprile 1945.
L’esperienza della Rsi, all’insegna di un crescendo di violenza e razzismo, si chiude con la morte di Mussolini il 28 aprile 1945, giustiziato dai partigiani dopo essere stato riconosciuto e arrestato a bordo di un camion tedesco nel vano tentativo di mettersi in salvo.

La Resistenza
In seguito all’occupazione nazista e alla costituzione della Repubblica sociale, nel Centro e nel Nord Italia prende forma la Resistenza.
Si tratta di un fenomeno complesso che segue uno sviluppo non sempre lineare e che risulta disomogeneo sul territorio per tempi dell’insorgenza partigiana, consistenza, composizione e colore politico delle formazioni, tipo di operazioni, organizzazione, legame più o meno forte con la popolazione.
Nonostante le differenze a livello regionale e locale, è possibile distinguere la fase di impianto dei gruppi partigiani (autunno-inverno 1943), il periodo di consolidamento del movimento (prima metà del 1944), la fase di massima espansione della Resistenza (estate 1944), la crisi autunno-inverno 1944-1945), il momento finale dell’insurrezione (primavera 1945).

Nate da primi nuclei di antifascisti o militari sbandati, nel corso del 1944 le formazioni partigiane aumentano i loro effettivi, specialmente con l’afflusso di giovani renitenti che si rifiutano di prestare servizio nelle forze armate fasciste; si organizzano militarmente e si collegano in modo via via più strutturato fra loro e con gli organi dirigenti del movimento di Resistenza.
Questi sono rappresentati dai partiti politici antifascisti e dalla rete dei Comitati di liberazione nazionale che ha al suo vertice il Cln Alta Italia con sede a Milano e il comando del Corpo volontari della libertà. L’obiettivo perseguito è di dare vita ad una organizzazione ramificata sul territorio con una struttura stabile e un funzionamento coordinato, in previsione della creazione di un esercito partigiano, che però si concretizzerà solo a ridosso della Liberazione.
Nelle formazioni partigiane confluiscono militanti dei diversi partiti antifascisti (comunisti, azionisti, cattolici, socialisti, repubblicani, liberali), monarchici, apolitici. Ma la maggior parte dei partigiani è formata da giovani cresciuti sotto il fascismo che nella partecipazione stessa alla Resistenza maturano una coscienza politica, facendo propri gli ideali di libertà e democrazia, declinati in base al colore politico delle brigate di appartenenza.

La Resistenza è un fenomeno variegato anche per le motivazioni che portano alla scelta partigiana e per gli obiettivi da conseguire. Secondo la lettura dello storico Claudio Pavone, in essa si intrecciano infatti più guerre: una patriottica per la liberazione dell’Italia dai tedeschi, una di classe che punta ad un rivolgimento dei rapporti sociali ed economici e una guerra civile fra italiani e italiane che oppone fascisti e antifascisti. Il movimento partigiano nei suoi momenti di massima crescita raccoglie alcune centinaia di migliaia di combattenti inquadrati nelle formazioni (si passa dai 70 mila combattenti della primavera del 1944 ai circa 250 mila dell’aprile 1945). Si tratta di un fenomeno minoritario rispetto al totale della popolazione italiana, che diventa però molto più consistente se dalla Resistenza armata si allarga lo sguardo alle numerose forme di opposizione non armata che ostacolano o impediscono a nazisti e fascisti di perseguire i loro scopi. Rientra qui l’esperienza degli oltre 600 mila soldati italiani catturati e deportati dai tedeschi dopo l’armistizio (gli Imi – Internati militari italiani) che si rifiutarono di collaborare con la Germania e con la Rsi. E rientra in quest’ambito la vasta gamma di azioni di Resistenza civile, di cui furono protagoniste soprattutto le donne. Ci riferiamo ad esempio agli atti di assistenza e protezione nei confronti dei soldati italiani e dei prigionieri di guerra alleati in fuga dai nazisti, alle azioni umanitarie a favore degli ebrei, alle molteplici forme di sostegno al movimento partigiano e di partecipazione non armata alla Resistenza, dall’attività di sabotaggio, alla distribuzione della stampa clandestina, ai compiti logistici. Ciò dà conto di un fenomeno che, soprattutto in alcune aree d’Italia, raggiunge livelli di partecipazione molto elevati.
La Resistenza costituisce una rottura senza precedenti nella storia d’Italia, come fenomeno di disobbedienza di massa – in cui sono presenti tutte le componenti della società per età, genere, estrazione sociale, livello culturale, ambito lavorativo, orientamento politico – che, sia pure con gradazioni diverse, vuole segnare la discontinuità con il periodo del fascismo e della guerra, e avviare una stagione di profondo rinnovamento politico e sociale per il paese.

 

Le stragi naziste e fasciste
Durante i mesi dell’occupazione nazista e della Repubblica sociale il territorio italiano è investito da violenze, uccisioni di singoli e piccoli gruppi, e stragi, anche di notevoli dimensioni, che colpiscono i partigiani e gli oppositori catturati, la popolazione civile, gli ebrei e coloro che vengono considerati potenziali nemici dagli occupanti tedeschi e dai fascisti di Salò.
Nello stragismo tedesco – iscritto nel quadro della guerra ideologica nazista – si intrecciano le necessità di controllare il territorio occupato, quelle di carattere militare per la conduzione della guerra contro gli anglo-americani, la punizione degli italiani considerati traditori, la lotta alla Resistenza in prossimità del fronte e nelle retrovie, l’azione di polizia nelle principali città, il perseguimento degli obiettivi di controllo politico dell’Italia e di sfruttamento delle risorse materiali, industriali, alimentari e umane della Penisola.
All’azione delle truppe e delle forze di polizia e delle SS tedesche, responsabili della maggioranza delle uccisioni, si aggiunge quella dei fascisti della Rsi, spesso affiancati agli occupanti, ma anche autonomi nell’uso della violenza – specialmente nella repressione di oppositori politici e partigiani, e nella caccia ai renitenti – come strumento di affermazione della propria presenza e di esercizio di un potere residuale.
È possibile individuare delle fasi temporali che corrispondono all’impianto del sistema occupante e al riproporsi dei fascisti sulla scena politica (per il Sud questa fase coincide con la ritirata violenta delle truppe tedesche); alla prima fase repressiva dei primi mesi del 1944 fino alla primavera; all’estate 1944 in cui abbiamo il pieno dispiegarsi della violenza contro i civili; al periodo autunnale e invernale 1944-45; alla primavera 1945 con le violenze perpetrate durante la rotta nazista e fascista.
La ricerca più recente ha censito sul territorio nazionale oltre 5.800 episodi di violenza con esiti fatali per una o più persone, per un totale di vittime che supera le 24 mila. Più di 16 mila sono uccise dai nazisti, 3.100 circa dai fascisti e 4.800 circa da nazisti e fascisti insieme.
La maggior parte delle vittime, circa 16 mila, è costituita da uomini giovani e adulti: partigiani, renitenti, militari, antifascisti, membri del clero. Segno che la violenza si rivolge verso oppositori veri o potenziali e che la matrice maschile della guerra viene mantenuta in Italia, sebbene non manchino stragi indiscriminate – in cui sono uccisi bambini e bambine (circa 800), donne (circa 3 mila) e uomini anziani (circa 2 mila) – che insanguinano il territorio soprattutto in corrispondenza delle linee di arresto del fronte: Gustav al Centro-Sud e specialmente Gotica, lungo l’Appennino tosco-emiliano. Sant’Anna di Stazzema (391 vittime), Vinca (159 vittime), Monte Sole (770 vittime) sono solo alcune di queste stragi indiscriminate, perpetrate dalle truppe operanti tedesche nel culmine della violenza contro i civili dell’estate-autunno 1944, quando gli ordini impartiti dai vertici militari nazisti in Italia forniscono la piena copertura e garantiscono l’immunità per ogni uccisione compiuta nel quadro della lotta contro la Resistenza.

Le deportazioni
Tra l’autunno del 1943 e la Liberazione centinaia di migliaia di italiani sono trasferiti forzatamente nel Reich e nei territori occupati, e reclusi in campi di internamento, di lavoro, di concentramento e di sterminio.
Diversi sono i luoghi, le condizioni e i motivi della loro cattura; diverse le autorità naziste competenti sul loro destino; diverse le strutture di reclusione e le condizioni materiali della loro detenzione.
Nel periodo seguito all’armistizio del 1943 i primi a essere trasportati in Germania sono i militari italiani catturati nella Penisola, nella Francia meridionale, in Grecia e nei Balcani. Circa 650 mila sono quelli che restano prigionieri dei nazisti sino a fine guerra.

Sono classificati come Internati militari italiani (Imi), reclusi nei campi di internamento e costretti al lavoro per il Reich per punirli per quello che i nazisti ritengono essere il tradimento dell’8 settembre, senza che la Rsi e Mussolini si oppongano fermamente. Fra loro, in particolare tra gli ufficiali, si svolgono campagne di reclutamento per il nuovo esercito di Salò o per le forze tedesche, ma le adesioni sono molto basse.
Le deportazioni dall’Italia nel sistema concentrazionario nazista dipendente dalle SS iniziano negli ultimi mesi del 1943 con le retate per la cattura degli ebrei italiani e stranieri presenti nella Penisola, retate di cui il rastrellamento del ghetto di Roma del 16 ottobre, con oltre mille persone catturate, è il caso più noto. Solo nel periodo successivo, dopo la creazione di una rete di campi di concentramento per ebrei da parte della Rsi, i nazisti organizzano sistematicamente la deportazione degli ebrei dall’Italia. Sono oltre 8.000 gli ebrei italiani e stranieri vittime della Shoah nella Penisola, quasi tutti sono deportati, i più nel campo di sterminio di Auschwitz II Birkenau per esservi in gran parte uccisi.
Dopo gli scioperi del marzo 1944 e la crescita delle formazioni partigiane, alla deportazione degli ebrei si affianca quella politica e sempre più numerosi si fanno i contingenti di oppositori e resistenti, arrestati in genere nelle regioni dell’Italia centro-settentrionale e deportati dalle SS nei campi di concentramento del Reich, specialmente a Dachau, Mauthausen, Buchenwald, Flossenbürg, e nei loro sottocampi. Il totale dei deportati politici è superiore alle 23 mila unità; la grande maggioranza è costituita da uomini, ma l’Italia conta almeno 1.500 deportate inviate in massima parte al campo femminile di Ravensbrück. I tassi di mortalità sono diversi a seconda dei Lager con punte massime di oltre il 50% per Mauthausen.

Infine sono trasferite forzatamente dall’Italia decine di migliaia di persone (in prevalenza maschi) rastrellate per essere inserite come lavoratori coatti nella rete di campi per lavoratori e sfruttate nell’economia bellica nazista alle dipendenze del Plenipotenziario generale per l’impiego della manodopera. Dopo i primi rastrellamenti di lavoratori eseguiti nell’Italia meridionale alla fine di settembre 1943, specialmente nell’area di Napoli, il maggior numero di persone destinate al lavoro coatto è catturata nelle regioni dell’Italia centro-settentrionale a partire dalla primavera del 1944 e in misura crescente nei mesi estivi e autunnali dello stesso anno, in concomitanza con operazioni di rastrellamento e repressione della Resistenza o con stragi di civili, in apposite retate nei centri abitati grandi e piccoli, e nel quadro delle evacuazioni dal fronte durante la ritirata verso nord delle truppe germaniche. Si calcola che i lavoratori forzati italiani deportati siano stati almeno centomila.

La popolazione civile
Con l’ingresso dell’Italia in guerra il 10 giugno 1940 le condizioni della popolazione mutano rapidamente. Sottoposti presto ai pesanti bombardamenti degli anglo-americani, finalizzati, oltre che a colpire aree strategiche e vie di comunicazione, a fiaccare il fronte interno, i civili cominciano a fuggire dai grandi centri urbani. Lo sfollamento, inizialmente considerato dal fascismo come un’utile precauzione, si intensifica a partire dall’ottobre 1942 con l’inasprimento dell’offensiva nemica.
La popolazione è inoltre costretta al razionamento che limita la distribuzione e l’uso degli alimenti e che, con il procedere del conflitto, si estende sempre più andando a interessare grassi, carboidrati, zucchero e combustibili. Per accedere alle merci i civili sono costretti ad esibire la tessera annonaria che permette di ricevere dai fornitori una certa quantità di prodotti. Il fascismo non è però in grado di gestire la situazione controllando la produzione, gli ammassi e il razionamento, e la conseguenza è un generalizzato aumento dei prezzi. Questo sistema fallimentare spinge la popolazione a trovare forme alternative di sussistenza vedendosi costretta ad allestire i cosiddetti orti di guerra (terreni coltivati in aree urbane all’interno di giardini pubblici o sulle piazze cittadine), oltre che a rivolgersi al mercato nero.

Dopo l’8 settembre 1943 la situazione si aggrava con l’occupazione del territorio da parte dei nazisti e la Penisola che diviene zona di guerra. Al pericolo dei bombardamenti e ai disagi materiali imposti dal conflitto la popolazione vede sommarsi le requisizioni degli alloggi e dei beni, le evacuazioni forzate, l’applicazione di una severa disciplina di guerra e soprattutto la violenza dei rastrellamenti, delle deportazioni e delle stragi indiscriminate ad opera dei nazisti e dei fascisti della Rsi.

 

In concomitanza con il peggioramento delle condizioni di vita, già nell’estate 1942 si registrano agitazioni operaie e manifestazioni popolari di protesta che si estendono nel marzo 1943 assumendo una forma più organizzata. Sono gli impianti torinesi a sospendere per primi la produzione e ben presto gli scioperi si allargano alle principali fabbriche del Nord con la precisa volontà di far terminare il conflitto.
A queste prime forme di opposizione alla guerra e al fascismo che l’ha voluta si aggiungono quelle spontanee successive all’8 settembre 1943 quando i civili e soprattutto le donne ospitano i prigionieri alleati evasi dai campi di concentramento fascisti e assistono, favorendone la fuga, i militari italiani sbandati. In seguito singoli e gruppi più o meno organizzati e collegati con i gruppi partigiani combattenti danno vita a episodi e forme di opposizione a vari livelli che vanno ascritti alla resistenza civile: dal sabotaggio della produzione e degli ammassi, agli scioperi, dalla distribuzione della stampa clandestina all’assistenza ai perseguitati e agli arrestati, dall’isolamento morale dei nemici alle reti di organizzazione logistica delle formazioni partigiane.
Una particolare forma di resistenza civile non direttamente legata alle altre reti di opposizione è rappresentata dall’attività della Delegazione di Assistenza agli Emigranti Ebrei (Delasem), organizzazione nata a dicembre 1939 per favorire l’emigrazione degli ebrei italiani e stranieri presenti nella Penisola. In tutte le città nascono uffici periferici legati alla sede principale di Genova che assistono gli ebrei in fuga offrendo loro vitto, alloggio e vestiario, documenti e assistenza sanitaria. Con l’applicazione delle misure di reclusione nei campi d’internamento fascisti, introdotte in seguito all’ingresso in guerra dell’Italia, la situazione degli ebrei precipita e l’impegno della Delasem si concentra nell’assistenza materiale e spirituale degli internati, oltre a divenire un punto di riferimento per le famiglie divise e disperse. Dopo l’8 settembre 1943, l’occupazione tedesca dell’Italia e la nascita della Repubblica sociale, la vita degli ebrei è minacciata dagli arresti e dalle deportazioni verso i campi di sterminio. La Delasem entra in clandestinità per continuare ad operare come rete di salvataggio riuscendo a realizzare un’importante opera di aiuto.

Liberazione e nascita della Repubblica
Il 25 aprile 1945 segna formalmente la Liberazione del paese con la proclamazione dell’insurrezione generale da parte dei vertici della Resistenza; il 2 maggio le truppe tedesche in Italia si arrendono agli angloamericani e termina la guerra.

Il territorio nazionale torna progressivamente sotto l’autorità del governo italiano che nel marzo 1946 stabilisce che la futura forma Stato sia decisa con un referendum tra monarchia e Repubblica da svolgersi contemporaneamente all’elezione di un’Assemblea Costituente. Il 2 giugno 1946 gli italiani, chiamati al voto a suffragio universale maschile e femminile, sanciscono la vittoria della Repubblica e l’affermazione della Democrazia cristiana, del Partito socialista e del Partito comunista all’interno dell’Assemblea che si impegna nella scrittura della Costituzione. Quest’ultima, frutto della mediazione tra cultura liberale, cultura cattolica e cultura social-comunista che disegna uno Stato e una società profondamente diversi da quelli fascisti, viene approvata il 22 dicembre 1947 e entra in vigore il 1° gennaio 1948.
Il paese affronta contemporaneamente altre importanti questioni. Centrale è il tema della giustizia, intesa come rimozione dall’incarico delle persone coinvolte con il passato regime e come punizione dei collaboratori durante il periodo dell’occupazione nazista.
Le sanzioni contro il fascismo hanno inizio nell’Italia liberata per mano degli Alleati e sono normate dal governo italiano a partire dall’agosto 1943 con la soppressione del Partito nazionale fascista, ma i primi provvedimenti complessi si hanno solo nell’aprile 1944 e precedono il decreto più importante emanato in concomitanza con il ritorno del governo a Roma. Il decreto legge luogotenenziale 159 del 27 luglio 1944 disciplina la defascistizzazione con la punizione dei delitti fascisti, la devoluzione dei profitti di regime e l’epurazione nella pubblica amministrazione. A tal fine sono creati due istituti speciali: l’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo e l’Alta Corte di giustizia che rimangono in funzione rispettivamente fino al 1946 e al 1947 quando vengono sostituiti da organi ordinari a significare la chiusura di una stagione a guerra conclusa. Tra il gennaio e il giugno 1945 la spinta antifascista arretra e nei mesi successivi alla Liberazione si ha lo scontro tra la volontà degli ambienti resistenziali di applicare un’epurazione più severa e quella coltivata da molti partiti di chiudere velocemente la defascistizzazione.
Per la punizione dei cittadini italiani che sotto la Rsi hanno collaborato con i nazisti, sul piano militare e politico, e che si sono macchiati di delitti fascisti durante il Ventennio vengono istituite le Corti d’Assise Straordinarie (poi Sezioni speciali di Corte d’Assise) in funzione da aprile 1945 a fine 1947. Si tratta di organismi giudiziari con competenze provinciali presieduti da magistrati al cui interno sono chiamati come giudici popolari cittadini non compromessi con il fascismo indicati dai Comitati di liberazione. Le sentenze delle Corti, nate per incanalare la violenza spontanea delle vendette e il cui operato non è scevro da influenze politiche, rendono conto delle violenze inflitte ai civili e ai partigiani dai fascisti e ci permettono di comprendere la situazione di estrema incertezza vissuta dal paese. Una situazione in cui i partiti antifascisti non sempre riescono a controllare atti di giustizia sommaria contro gli ex-fascisti.
La giustizia penale risente inoltre della promulgazione dell’amnistia del 22 giugno 1946 ad opera del guardasigilli Palmiro Togliatti segretario del Partito comunista. Con lo scopo di raggiungere una pacificazione nazionale e incentivare la ricostruzione materiale nel paese, l’amnistia prevede che siano estinti i reati comuni e politici, compreso quello di collaborazionismo, con conseguente cessazione delle pene già inflitte e proscioglimento per gli imputati in attesa di giudizio; e inoltre che siano condonate le pene nei casi esclusi dall’amnistia. L’effetto principale della legge è la liberazione dal carcere di migliaia di ex-fascisti già condannati o in attesa di giudizio. In seguito all’esclusione dei comunisti dal governo italiano, a partire dal 1947 l’amnistia viene progressivamente estesa e, in un clima di forti malumori soprattutto nel Nord del paese, i successivi provvedimenti portano dapprima all’estinzione dei reati, e poi all’indulto che nel 1953 viene applicato a tutti i reati politici commessi entro l’estate del 1948.
La sottovalutazione dell’impatto dell’amnistia, il mancato ricambio dell’apparato statale garantito dall’operato della magistratura, il fallimento dell’epurazione sono tra gli elementi principali che chiudono un periodo iniziato all’insegna del cambiamento sancendo in molti ambiti la continuità con il passato regime.

La memoria della guerra e dell’occupazione
La Seconda guerra mondiale ha inciso sulle memorie individuali e collettive, generando delle rappresentazioni diversificate non riconducibili a un unico racconto. Alla creazione di una “memoria frantumata” hanno contribuito le diverse vicende vissute da numerosi attori: i reduci delle guerre fasciste combattute su numerosi fronti di guerra (Francia, Africa, Balcani, Russia), i resistenti della guerra di Liberazione e i fascisti della Rsi, i soldati italiani prigionieri dei tedeschi (Internati militari italiani) e quelli caduti nelle mani degli alleati, le vittime delle deportazioni (ebrei, oppositori politici, lavoratori forzati), i civili colpiti da stragi naziste e fasciste o dalle violenze dei militari alleati (si pensi alle vittime dei bombardamenti o a quelle degli stupri commessi dal Corpo di spedizione francese), senza dimenticare le comunità dei giuliani e dalmati costrette all’esodo dopo la conclusione del conflitto.
Rispetto al contesto generale, il caso italiano presenta evidenti complessità, alla luce del cambio di fronte nel settembre 1943, che costituisce uno spartiacque fra la guerra combattuta per tre anni a fianco della Germania nazista e la guerra combattuta dal Regno del Sud e dalla Resistenza contro l’”occupante” tedesco, spalleggiato dalla Repubblica sociale italiana.
Nella raffigurazione e nel ricordo dell’esperienza della guerra dell’Asse, combattuta dal giugno 1940 al settembre 1943, è possibile rintracciare alcuni elementi di una memoria vittimista, che nasconde le responsabilità italiane nella guerra d’aggressione, descritta come “né voluta né sentita” dal paese e dalle sue forze armate. Analogo silenzio viene steso sui crimini di guerra commessi diffusamente, soprattutto nei Balcani. Al centro di questa memoria viene infatti posto lo stereotipo del “bravo italiano”, ovvero del militare italiano che solidarizza con le popolazioni occupate e che salva gli ebrei braccati dai “camerati” tedeschi. Ciò si presta alla costruzione di un’identità collettiva positiva, quella di un popolo incolpevole, esso stesso tra le prime vittime della guerra di Mussolini.
Questa immagine benevola e autossolutoria non è in contrasto, anzi ben si compenetra, con la memoria della seconda guerra combattuta dagli italiani dopo il 1943: la Resistenza contro l’invasore tedesco, considerata la “vera” guerra degli italiani, condivisa dal paese perché combattuta contro l’atavico nemico della nazione. La memoria pubblica si concentra dunque sulla storia di “un popolo alla macchia” e descrive in termini eroici la Resistenza come un “secondo Risorgimento”.
Il discorso è sotteso da utilità politiche ben precise: la presentazione di un’Italia che aveva lottato lealmente al fianco degli Alleati contro la “belva nazista”, abiurando i trascorsi fascisti (in cui era finita per volere di pochi). Il “bravo italiano”, partito in guerra già disilluso, diviene strumento di una drastica deresponsabilizzazione, che consente di scansare coinvolgimenti e complicità in realtà molto larghe, soprattutto con riferimento alle politiche di repressione nei territori occupati, che avevano visto partecipe, non senza efferatezze, un soldato di cui si decantano solo i buoni sentimenti e le virtù umanitarie. In questa veste rassicurante, i subalterni in grigioverde – non gli alti ufficiali – sono giustapposti al “cattivo tedesco” che, privo di qualsiasi forma d’empatia, aveva abbandonato l’alpino nella neve durante la ritirata di Russia e il fante italiano nelle sabbie del deserto africano. Falso alleato dal 1940 al 1943, il tedesco avrebbe poi dimostrato la propria vera natura al momento dell’armistizio italiano mettendo in atto un brutale progetto d’occupazione dell’Italia.
Sino ad anni recenti, questa memoria del conflitto ha predominato condizionando sia i discorsi pubblici sia le memorie individuali, tutelata anche dall’assenza di procedimenti penali contro i criminali di guerra italiani. Solo dagli anni Novanta, essa è stata sottoposta ad un processo di revisione critica che ha focalizzato l’attenzione sulla partecipazione degli italiani alla guerra dell’Asse, come invasori e non come vittime.

 

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